
Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, tra le maggiori guide spirituali (e non solo) del nostro tempo, in questi giorni è in Italia, invitato dall’Istituto Lama Tsong Khapa (dal nome del grande riformatore tibetano, vissuto a cavallo tra il XIV e il XV secolo, fondatore della scuola dei Ghelupa, lett. “virtuosi”), uno dei più importanti centri buddhisti europei sorto a Pisa nel lontano 1977. Settantanove anni ai primi di luglio, buona parte dei quali (55) trascorsi in esilio, a McLeod Ganj, nella regione indiana dell’Himachal Pradesh, premio Nobel per la pace nel 1989, nonostante l’età che comincia a farsi avanzata, continua a girare instancabilmente il mondo calamitando l’attenzione di un numero in considerevole aumento di occidentali sempre più attratti dalla filosofia buddhista. Pochi sanno, tra l’altro, che nel 1994 è stato insignito, dall’allora Gran Maestro Virgilio Gaito, dell’ordine di “Galileo Galilei”, la più prestigiosa onorificenza massonica, per la promozione degli ideali, dichiaratamente massonici, di fratellanza, tolleranza e rispetto di ogni essere vivente.
La sua biografia, particolarmente affascinante, ha del leggendario. Si narra che non appena, nel 1935, il suo predecessore, il XIII Dalai Lama, a quel tempo guida politica e religiosa del Tibet, lasciò il corpo materiale, cominciarono le ricerche del bambino in cui si sarebbe reincarnato. Il Reggente, secondo quanto previsto dalla tradizione tibetana, si recò al lago sacro di Lhamo Lhatso per scorgere sulla superficie di quelle acque immagini e indicazioni significative. Vide tre lettere dell’alfabeto tibetano, Ah, Ka e Ma, accompagnate dall’immagine di un monastero dal tetto di giada verde e oro e di una casa con tegole turchesi. In seguito a quella visione, nel 1937 alti lama e dignitari furono inviati in tutte le regioni dell’altopiano. Quando il gruppo che si era indirizzato verso est arrivò in Amdo, trovò un luogo che pareva corrispondere alla descrizione. Ai monaci corse subito incontro un bambino che riconobbe, come proprio, un rosario appartenuto al XIII Dalai Lama. Il riconoscimento di altri oggetti, insieme a diverse prove, fornì la certezza di essere davanti alla reincarnazione cercata. Si spiegavano così anche le tre lettere intraviste nel Lhamo Lhatso: Ah stava per Amdo, il nome della provincia; Ka per Kumbum, uno dei più grandi monasteri nelle vicinanze e Ma per il monastero di Karma Rolpai Dorje, il monastero dal tetto verde e oro sulla montagna sopra il villaggio. Il 22 febbraio 1940 il piccolo Lhamo Dhondrub (questo il suo nome originario) venne ufficialmente investito a Lhasa del titolo di Dalai Lama e ribattezzato con i nomi di Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso (Oceano di Saggezza). La sua educazione iniziò quando aveva sei anni. Nel 1950, in seguito all’invasione del Tibet da parte di ottantamila soldati cinesi, gli furono attribuiti, in fretta e in furia, i pieni poteri politici. Nel 1954 si recò a Pechino per tentare di dialogare con Mao Tse-Tung e altri leader cinesi, fra i quali Chou En-Lai e Deng Xiaoping. Nel 1956, durante una visita in India in occasione del 2.500° anniversario del Buddha Jayanti, ebbe una serie di incontri con il Primo Ministro Nehru e con il Premier Chou En-Lai in cui fu discusso il progressivo deterioramento della situazione all’interno del Tibet. I tentativi di soluzione pacifica furono vanificati dalla spietata politica perseguita da Pechino nel Tibet Orientale, politica che scatenò la sollevazione popolare e la resistenza. La protesta si diffuse nelle altre regioni del paese. Il 10 marzo 1959 nella capitale, Lhasa, esplose la più grande dimostrazione della storia tibetana: i tibetani insorsero chiedendo ai cinesi di andarsene e restituire l’indipendenza al paese. La repressione, manco a dirlo, fu spietata e il Dalai Lama, per evitare di cadere nelle grinfie cinesi, fu costretto ad una rocambolesca fuga in India. Il resto è storia dei nostri giorni, più o meno nota. Nonostante il Tibet sia soggetto da parte dei cinesi ad una brutale colonizzazione il cui scopo è la distruzione sistematica di un popolo e della sua millenaria tradizione, il Dalai Lama continua ad essere fermo e intransigente assertore della nonviolenza. Anche a causa della politica di sterilizzazioni e aborti forzati imposta da Pechino, i tibetani sono ormai ridotti ad essere ridotti in minoranza rispetto agli invasori (appena sei milioni rispetto a dieci milioni di cinesi). Non è ovviamente facile prevedere quale futuro spetti al Tibet.
L’unica certezza sta nella ferma insistenza del Dalai Lama nella via di mezzo, una via che presenta sostanziali analogie con quanto teorizzato e messo in pratica da Gandhi ma che deve anche confrontarsi da un lato con la satrapia cinese, dall’altro con l’insofferenza del popolo tibetano che, esasperato, negli ultimi cinque anni è giunto all’estremo d’immolarsi con il fuoco (sono attualmente 131 i tibetani che si sono bruciati rivendicando l’indipendenza della propria terra).
Dinanzi al quadro generale e ad una controparte poco propensa al dialogo come quella cinese, la nonviolenza propugnata e caldeggiata dall’esponente religioso dovrà inevitabilmente intravedere soluzioni nuove e trovare maggiori impulsi. Il segreto del successo (parziale) in India dell’azione gandhiana risiedeva proprio nel sapersi costantemente rinnovare, tentando continuamente vie impreviste e imprevedibili, senza indugiare nel già collaudato. La perseveranza con cui oggi dinanzi all’arroganza dei militari cinesi si rilancia e contrappone la “forza della verità” della nonviolenza è decisamente encomiabile e dovrebbe essere strenuamente incoraggiata da noi tutti. Senza mezzi termini e senza omertose condiscendenze con l’imperialismo cinese. A Tenzin Gyatso giunga, intanto, il nostro più caloroso benvenuto unito alla solidarietà alla sua gente e a un sentimento di gratitudine per la sua capacità di trasmettere luce e amore in un’epoca in cui la pressione delle tenebre rischia di essere pericolosamente, drammaticamente, contagiosa.