Stephan Micus, lo sciamano della musica

Stephan Micus, lo sciamano della musica

Ogni lavoro di Stephan Micus è un viaggio verso lande d’intensa spiritualità, dove, nel segno dell’elevazione interiore, si amalgamano disparati orizzonti culturali. A distanza di due anni da Panagia (ECM, 2013) in cui venivano riportati alla luce testi devozionali mariani appartenenti alla tradizione greco-bizantina ( Παναγία si può tradurre letteralmente con “Tutta santa”) e risalenti al VII secolo, il musicista tedesco (è nato a Stoccarda nel 1953) ci propone adesso, sempre con la raffinatissima ECM, Nomad songs il suo ventunesimo album, meno vocale rispetto al precedente ma in perfetta continuità con l’originalissimo e solitario percorso intrapreso una quarantina d’anni fa. Poco conosciuto dal grande pubblico ma amato e seguito da ammiratori in tutto il mondo, tanto da essere considerato un autore cult, Micus rifugge da qualsiasi etichetta e, appartato nella dimora di Palma di Maiorca dove si è trasferito dalla campagna bavarese, porta avanti un discorso che difficilmente ha eguali nel panorama contemporaneo.
Archaic concerts (Caroline) lo rivelò subito nel 1976 alla critica specializzata. Prima del definitivo passaggio, dieci anni più tardi, alla più congeniale ECM di Manfred Eicher, seguirono, con cadenza quasi annuale, sette dischi quasi tutti con la consorella Japo, Implosions (1977), Koan (1977), Behind eleven deserts (Wind, 1978), Till the end of time (1978), Wings over water (1981), Listen to the rain (1983), East of the night (1985). Per la ECM ha, poi, inciso Ocean (1986), Twilight fields (1987), The music of stones (1989), Darkness and light (1990), To the evening child (1992), Athos (1994), The garden of mirrors (1997), Desert poems (2001), Towards the wind (2002), Life (2004), On the wing (2006), Snow (2008), Bold as light (2010) e i recenti, già citati, Panagia e Nomad songs.
I titoli la dicono lunga sulla sua musica e sul senso della sua ricerca. Micus non è solo un compositore e un sorprendente polistrumentista ma un etnomusicologo costantemente in evoluzione e in viaggio, soprattutto in Asia e in Africa, con l’intento di scovare e studiare strumenti desueti, talvolta addirittura dimenticati. Una volta trovati, li modifica con nuove accordature prima di adoperarli, con risultati strabilianti.
È impressionante il numero di strumenti che padroneggia. Si va da quelli a corda come la cetra bavarese, gli indiani dilruba, esraj, sarangi, sarod, santur, mandobahar, la tampura, il dulcimer o salterio di derivazione persiana, il chitrali sitar pakistano, chitarre a quattordici corde appositamente progettate per risuonare simpateticamente come nel sitar, l’afghano rabab, gli uyguri rewab e sattar, il genbri di Essaouira, tipico della musica gnawa nel sud del Marocco, il charango andino, la ballatst-strings (scultura sonora ideata da Paul Fuchs e Dieter Trüstedt), le arpe africane sinding, doussn’guni (uno dei primi a suonarla al di fuori della musica africana fu Don Cherry), bolombatto, l’etiope bagana (la mitica arpa di re Davide), a quelli lamellofoni come kalimba della Tanzania e ndingo, agli aerofoni come l’iracheno mudbedsh, il nay mediorientale (flauto di canna utilizzato nei rituali sufi, richiede una tecnica molto complessa con il ricorso simultaneo ai denti, alla lingua, al palato, alle labbra, oltre che, ovviamente, alle dita), il duduk armeno, i giapponesi nohkan, shakuhachi, sho (sorta di caratteristico organo a fiato), il siberiano ki un ki (è fatto con una canna lunga due metri e non si suona espirando ma inspirando), il whistle irlandese, il suling balinese, il kortholt rinascimentale tedesco, hné birmano, raj nplaim (si pronuncia “ranplai”), oboe di bambù della minoranza Hmong del Laos, a quelli a percussione come l’hang dei Caraibi, il bodhran irlandese, vari tipi di gong, maung, campane birmane, campanacci di cavalli dello Zanskar, scacciapensieri e cembali tibetani, il dondon ghanese vasi d’argilla per i fiori, grandi pietre scolpite (come quella collocata nella cattedrale di Ulm, nella Germania meridionale).
“Quando mi innamoro di uno strumento”, dice, ” non mi resta che andare nel suo paese d’origine e cercare qualcuno che mi insegni a suonarlo. Non studio solo la sua musica, ma la cultura della sua terra. Credo che per imparare veramente a suonare uno strumento, specialmente di una terra straniera, occorra entrare conoscere la filosofia, l’architettura, la poesia, la cucina ed entrare in contatto con la natura del posto. È quello che ho sempre fatto nel corso della mia vita. Tutto è cominciato quando, a dodici anni, mi regalarono per il compleanno una chitarra che avevo molto desiderato. Più tardi, ascoltando i Jethro Tull, divenni interessato al flauto. A quell’epoca e a scuola suonavo in gruppi rock. Me ne allontanai, però, rapidamente per iniziare a scrivere testi in inglese accompagnati con la chitarra acustica. Quando realizzai il mio primo album ero ancora studente. Verso la fine dell’itinerario scolastico,negli anni ’70-’71, ascoltai per la prima volta un disco di musica classica indiana. Fu, per me, un momento incredibile che segnò una svolta decisiva alla mia vita. Così, finiti gli studi, nel 1972, andai in India, viaggiando via terra, per imparare la musica indiana e il sitar. Da allora ogni volta che, ascoltando dischi o concerti, sento qualche strumento che mi attrae veramente, vado nel paese d’origine per studiarlo”.
Nelle sue mani ogni strumento si trasforma come per magia. Micus non si limita, infatti, a suonarlo in modo tradizionale ma ne sviluppa le potenzialità che riesce ad avvertire. Non solo. Nelle sue composizioni accomuna tra loro strumenti fortemente dissimili, mai utilizzati, prima, insieme.
Suona da solo, senza alcun aiuto, ricorrendo a tecniche di registrazione multitraccia. “Non potrei mai comporre”, ha affermato, “musica per uno strumento che non suonassi io stesso”. Anche i cori costituiti da numerose (talora anche ventidue) voci che a volte s’incontrano nei suoi brani e che cantano in una lingua inesistente (da lui inventata con lo scopo di suscitare una comprensione più intima, priva di significato razionale ma significativamente coinvolgente dal punto di vista spirituale), scaturiscono da sovraincisioni di un’unica voce, la sua, espressa in varie tonalità.
Nella sua musica, scaturita dal profondo dell’anima, s’incontrano universi paralleli travalicando remore e barriere. C’è chi la riconduce alla world music, chi alla classica, chi la mette in relazione alla new age. In realtà, nessuna definizione è adeguata e pertinente. La sua dimensione è quella dell’altrove. Micus stesso ha affermato di diventare, quando compone, altro da sé. Senza questa estraniazione, senza il farsi vuoto all’interno, non può esserci espansione, divenire.
“Diversi anni fa”, ha raccontato in un’intervista alla rivista austriaca Die Bühne, “mentre mi stavo recando in autobus in Nepal mi divenne chiaro quale sarebbe stata la mia musica. È stata un’esperienza molto forte. Eravamo in mezzo ad una valle a bassa quota, a circa quattro-cinquecento metri. In quella zona il paesaggio è molto fertile. C’erano risaie, bufali d’acqua, bambini, alberi, pappagalli e villaggi colorati pieni di vita. Sullo sfondo si stagliavano nel cielo montagne di sette-ottomila metri d’altezza, una zona dov’era impossibile vivere. Quelle montagne mi sembrarono un simbolo di eternità, con le loro vette scintillanti di neve, e anche di purezza. Quei due panorami affiancati, la vita piena di colore e la purezza eterna e irraggiungibile delle cime, in dialogo e continuo avvicendarsi l’uno con l’altro, mi colpirono come l’immagine della musica perfetta. I due opposti erano complementari: i campi avrebbero perso ogni interesse senza quelle montagne e i massicci,a loro volta, sarebbero sembrati gelidi e privi di vita senza i campi sottostanti. Mi interessa tenere presente nella mia musica questi due elementi: l’amore per le forti emozioni della vita e la dimensione dell’eterno e dell’irraggiungibile. Una musica che enfatizzasse soltanto uno di questi aspetti sarebbe o troppo sdolcinata o troppo fredda. Ho capito così che il perfetto equilibrio di questi fattori avrebbe condotto l’ascoltatore ad essere Altrove, in un equilibrio profondo e vibrante”.
In fase di composizione non segue un procedimento mentale ma ricorre a varie improvvisazioni. Inizia di solito con uno strumento e improvvisa finché non trova spunti che reputa interessanti. Intanto registra per avere un riferimento. Non appena ritiene che un passaggio anche di pochi secondi possa essere sviluppato, allora comincia a muoversi. Prosegue così finché non ne scaturisce una melodia. “Non potrei mai comporre”, ha affermato, “soltanto con carta e matita, senza suonare, sarebbe assolutamente impossibile”.
Nello splendido Nomad songs Micus ricorre a due strumenti con cui non aveva mai lavorato prima: il genbri, liuto marocchino utilizzato dai Gnawa, e l’ndingo, lamellofono dei San del Botswana. Discendenti dagli antichi schiavi provenienti dall’Africa subsahariana, gli Gnawa suonano il genbri in cerimoniali scanditi da ritmi ipnotici che conducono i partecipanti in uno stato di trance. I San (in lingua khoikoi significa “stranieri”), meglio conosciuti come Boscimani (dall’inglese “bushmen”, “abitanti della boscaglia”), sono un gruppo etnico del Sud Africa in lotta con le autorità del Botswana. Si tratta, purtroppo, di una storia drammatica che, a causa dell’omologazione globale, si ripete in diverse parti del mondo e a cui stiamo assistendo nell’inerzia e nell’indifferenza generali. Il governo del Botswana sta, infatti, tentando di distruggere l’esistenza di questi nativi attraverso la sedentarizzazione forzata e la persecuzione della loro identità culturale.
“Da centinaia d’anni, se non da millenni”, sostiene Micus, “questi popoli vivono in perfetta armonia con il loro ambiente senza, peraltro, procurare alcun danno allo sviluppo. Anziché ammirarli per l’integrità del loro stile di vita e tutelarli, li si vuole condannare alla sparizione. Questo vale per i San come per gli aborigeni australiani, le tribù siberiane, diversi gruppi tibetani, così come è accaduto con i nativi americani. Questa gente, privata delle abitudini, dei costumi, della propria tradizione, della loro terra, è finita”.
Nomad songs, come e più di altri suoi cd, è quindi un omaggio di Micus ad etnie condannate, se non ci sarà una drastica inversione di tendenza, ad estinguersi nel giro di qualche decennio. Un omaggio del tipo di quelli che solo un poeta e musicista come lui è in grado di fare. Nato dal cuore, è carico di struggente bellezza. Anche qui si è proceduto tramite la complementarietà di sonorità apparentemente contrastanti tra loro. Il genbri, ad esempio, ha un registro più basso dell’ndingo, di fatto più acuto. La loro unione è un punto di fusione tra femminile e maschile, yin e yang. Ai due strumenti si aggiungono, poi, in un’affascinante tessitura, altri particolarmente cari all’autore come il nay, lo shakuhachi, tin whistles, varie chitarre, il rabab e il rewab, oltre alla voce. Ancora una volta, si seguono nuove rotte per viaggio che porta al centro della vita.

Dal quotidiano “Il Garantista” di venerdì 18 settembre 2015

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