La Via di mezzo di Nāgārjuna analizzata da Thich Nhat Hanh:
la vacuità come antidoto a illusioni e false convenzioni
di Francesco Pullia
Vissuto a cavallo tra il II e il III sec., Nāgārjuna, con la sua Madhyamaka (Via di mezzo), è stato un filosofo geniale, anticipatore addirittura della complessità quantistica. In Helgoland (Adelphi, 2020) il fisico Carlo Rovelli ne ha messo in luce la prospettiva vertiginosa che, senza alcuna remora, smantella la ricerca di qualsiasi fondamento ultimo sottolineando l’illusorietà e la vacuità dei fenomeni, a partire da noi stessi, nonché l’impermanenza di ogni manifestazione della vita. È chiaro che una visione così radicale scardina gran parte della speculazione occidentale ponendosi come antitetica anche a diverse concezioni personalistiche orientali.
A questa originale elaborazione ha dedicato pagine memorabili Thich Nhat Hanh (1926-2022) nel libro Il nocciolo della vacuità pubblicato da poco, nella traduzione di Andrea Libero Carbone, da Ubiliber, piccola ma attivissima casa editrice dell’Unione buddhista italiana che in pochi anni può già vantare un catalogo di tutto rispetto di testi meticolosamente curati, a cominciare dalla veste grafica. Sono presentati i preziosi insegnamenti sull’opera Mūlamadhyamakakārikā (Stanze della via di mezzo), la più importante e nota di Nāgārjuna, trasmessi tra il 2001 e il 2003, nel corso di due ritiri, dal maestro zen vietnamita che, come si sa, fu costretto a vivere in esilio dalla terra natia a causa del suo impegno nonviolento, fondò nel sudest della Francia la comunità del Plum Village e venne candidato nel 1967 da Martin Luther King al Nobel per la pace.
Nāgārjuna, ci dice Thich Nhat Hanh, con il suo antiintellettualismo ha dischiuso il sentiero per affrancarci da preconcetti, costruzioni, schematismi mentali, sostituendo innanzitutto alla fallacia e vanità dell’autosussistenza di un sé l’interdipendenza e l’interrelazione della co-originazione condizionata. Ciò significa, di fatto, l’insussistenza di ogni aspetto fenomenico, la vacuità di ogni forma, tramite una comprensione non discriminativa e non concettuale. Ecco il punto: la via di mezzo oltrepassa il dualismo delle pretestuose contrapposizioni riconducendoci all’essenza del dettato del Buddha Śākyamuni, il cui intento non risiede nell’affermazione che le cose esistano o meno ma nella consapevolezza di inter-essere, di essere cioè relazionati. Non c’è da nessuna parte, in nessun luogo, un sé separato, men che mai una “persona”. Niente e nessuno deriva da una creazione. Tutto è manifestazione, apparizione che racchiude inevitabile sparizione e nascondimento. La realtà delle cose va ben oltre la loro designazione convenzionale e il nirvāṇa è il trascendimento del dualismo che ci porta a discriminare, limitare, separare, producendo ansia, dolore, angoscia. Nascita e morte non si escludono vicendevolmente ma, al contrario, si sostengono in ogni istante. Il riconoscimento che i vari fenomeni sono vuoti non significa affatto avvalorarne la nullità ma semplicemente inficiarne l’immutabilità. Il vuoto travalica essere e nulla: nulla si crea e, di conseguenza, nulla si distrugge, tutto, invece, si trasforma, come alla fine del XVIII secolo sperimentò Lavoisier. Ciò significa porsi al di là dell’eternalismo e del nichilismo. Non si nasce, non si muore, si muta in continuazione. «A salvarci dalla sofferenza», sottolinea Thich Nhat Hanh, «non sarà un essere sovrumano, ma la nostra visione profonda della Via di mezzo». Se andiamo in profondità, ci accorgiamo, infatti, che tutte le cose sono vuote. Possiamo, quindi, liberarci da concettualizzazioni e designazioni convenzionali e renderci conto che, appunto, non c’è nascita, non c’è morte, non c’è essere e neanche non-essere. Sia “nascita” che “morte” sono soggette ad incessante mutamento, a continua trasformazione. La comprensione dell’impermanenza e del non-sé ci aiuta a liberarci dai segni del sorgere, del permanere, del decadere, del finire. Una volta liberati, possiamo entrare in contatto con la realtà del nirvāṇa. «Nulla può passare dall’essere al non-essere, così come nulla può passare dal non-essere all’essere. Se riconosciamo questa verità, riconosciamo anche che non ci sono né nascita né morte. Se riconosciamo che non ci sono né nascita né morte, riconosciamo che non c’è arrivare né andarsene».
Seguendo questa direzione, Thich Nhat Hanh si focalizza sull’equivalenza di saṃsāra e nirvāṇa. A questo proposito, racconta un aneddoto esplicativo: «Un maestro zen vietnamita una volta esortò i suoi allievi a non rimanere legati al mondo della nascita e della morte, ma a trovare il nirvāṇa. Un discepolo allora si alzò e chiese al maestro: “dove possiamo trovarlo?”. Il maestro rispose: “Va trovato proprio qui, nel mondo della nascita e della morte!”. Non è possibile trovare il nirvāṇa se non nel saṃsāra. Il saṃsāra si produce a causa del nostro modo errato di guardare: se riusciamo a guardare con gli occhi della comprensione profonda e del risveglio, il saṃsāra diventa nirvāṇa». Il riconoscimento che tutti i fenomeni sono privi di una propria natura è di una portata scardinante perché fa cadere l’impianto che sorregge buona parte della metafisica, soprattutto occidentale, e sgretola vari tipi di dogmatismo. Come, a questo proposito, ha suggerito Rovelli, non si nega affatto l’esistenza convenzionale di cui, anzi, viene affermata tutta la complessità. A perdere significato è il sostrato ultimo. Neanche la vacuità può, tra l’altro, caratterizzarsi come realtà ultima. Se tutto è in dipendenza relazionale con altro appare evidente che tutto è vuoto e, pertanto, anche la vacuità. Di qui la radicalità di cui Nāgārjuna è portatore e che incentiva a non ancorarsi a limitazioni assolutistiche. Non solo, non mancano implicazioni etiche: «comprendere che non esistiamo come entità autonome ci aiuta a liberarci dall’attaccamento e dalla sofferenza. Proprio per la sua impermanenza, per l’assenza di ogni Assoluto, la vita ha senso ed è preziosa. A me, come essere umano», ha confessato Rovelli, «insegna la serenità, la leggerezza e la bellezza del mondo: non siamo che immagini di immagini. La realtà, inclusi noi stessi, non è che un tenue e fragile velo al di là del quale…non c’è nulla».